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Corte Costituzionale, 23.11.2021, n. 218. Concessioni senza gara: illegittimo l’obbligo di esternalizzare i contratti

Corte Costituzionale, 23.11.2021, n. 218. Concessioni senza gara: illegittimo l’obbligo di esternalizzare i contratti

legge siciliana sugli appalti

Con la sentenza in commento, la Corte Costituzionale si è pronunciata in ordine alla legittimità costituzionale delle disposizioni dettate, in materia di affidamenti dei concessionari, dall’ art. 1, comma 1, lettera iii), della L. 11/2016 e, in particolare, dall’art. 177, co.1, del D.Lgs. 50/2016, a mente del quale “Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 7, i soggetti pubblici o privati, titolari di concessioni di lavori, di servizi pubblici o di forniture già in essere alla data di entrata in vigore del presente codice, non affidate con la formula della finanza di progetto, ovvero con procedure di gara ad evidenza pubblica secondo il diritto dell’Unione europea, sono obbligati ad affidare, una quota pari all’ottanta per cento dei contratti di lavori, servizi e forniture relativi alle concessioni di importo di importo pari o superiore a 150.000 euro e relativi alle concessioni mediante procedura ad evidenza pubblica, introducendo clausole sociali e per la stabilità del personale impiegato e per la salvaguardia delle professionalità. La restante parte può essere realizzata da società in house di cui all’articolo 5 per i soggetti pubblici, ovvero da società direttamente o indirettamente controllate o collegate per i soggetti privati, ovvero tramite operatori individuati mediante procedura ad evidenza pubblica, anche di tipo semplificato. Per i titolari di concessioni autostradali, ferme restando le altre disposizioni del presente comma, la quota di cui al primo periodo è pari al sessanta per cento”.

La norma, attuativa del predetto art. 1, comma 1, lett. iii), della legge delega 11/2016, sottende evidentemente l’esigenza di dare piena attuazione al principio eurounitario di libera concorrenza.

La ratio dell’introduzione di uno specifico obbligo “procedurale” di selezione del contraente mediante evidenza pubblica, posta a carico dei concessionari ad opera dell’art. 177 del D.Lgs. 50/2016, deriva difatti dalla ravvisata necessità di sopperire parzialmente all’originario deficit concorrenziale connesso alla gestione privatistica dell’infrastruttura ovvero del servizio oggetto di concessione, laddove siffatto gestore non sia stato selezionato a sua volta con gara.

Al fine di ottenere una parziale riapertura del mercato concorrenziale dei lavori, servizi e forniture relativi alle concessioni già in essere, a tutela degli operatori economici potenzialmente interessati, il Legislatore ha dunque introdotto l’obbligo dei concessionari, selezionati a monte in assenza di procedure ad evidenza pubblica, di “rimettere a gara”, a valle, una determinata quota percentuale di appalti connessi alla gestione dell’opera pubblica.

Come premesso, il delineato contesto normativo è stato interessato dalla recentissima pronuncia in oggetto, che trova origine dalla sentenza di rimessione del 19 agosto 2020, iscritta al n. 166 del registro ordinanze 2020, con cui il Consiglio di Stato ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dei citati artt. 1, comma 1, lettera iii), della L. 11/2016 e 177, comma 1, del D.Lgs. 50/2016, per violazione degli artt. 3, primo comma, 41, primo comma, e 97, secondo comma, della Costituzione.

Ad avviso del giudice rimettente, le norme in esame, per quanto finalizzate a dare piena attuazione al principio di libera concorrenza, si sostanzierebbero difatti in un obbligo di “dismissione totalitaria” delle concessioni, traducendosi in un impedimento assoluto a proseguire l’attività economica privata. Altresì, le disposizioni determinerebbero lo snaturamento del ruolo del privato concessionario, ridotto a mera stazione appaltante.

Quanto sopra, in contrasto con il principio di libertà di impresa sancito dall’art. 41, primo comma, della Carta costituzionale, invocato dal giudice a quo quale limite “interno” alle misure finalizzate ad assicurare la concorrenza.

Chiamata ad esprimersi sul punto, la Consulta, correttamente ravvisando il punto nodale della questione nell’effettiva capacità delle norme poste a tutela della concorrenza di limitare la libertà di iniziativa economica, ha osservato che: “libera iniziativa economica e limiti al suo esercizio devono costituire oggetto, nel quadro della garanzia offerta dall’art. 41 Cost. – considerato sia nel suo primo comma, espressamente individuato dal rimettente come parametro di legittimità costituzionale, sia nei due commi successivi che, della invocata libertà, definiscono portata e limiti – di una complessa operazione di bilanciamento. In essa vengono in evidenza, per un verso, il contesto sociale ed economico di riferimento e le esigenze generali del mercato in cui si realizza la libertà di impresa, e, per altro verso, le legittime aspettative degli operatori, in particolare quando essi abbiano dato avvio, sulla base di investimenti e di programmi, a un’attività imprenditoriale in corso di svolgimento. E al riguardo si deve sottolineare che uno degli aspetti caratterizzanti della libertà di iniziativa economica è costituito dalla possibilità di scelta spettante all’imprenditore: scelta dell’attività da svolgere, delle modalità di reperimento dei capitali, delle forme di organizzazione della stessa attività, dei sistemi di gestione di quest’ultima e delle tipologie di corrispettivo.

Se, dunque, legittimamente in base a quanto previsto all’art. 41 Cost., il legislatore può intervenire a limitare e conformare la libertà d’impresa in funzione di tutela della concorrenza, nello specifico ponendo rimedio ex post al vulnus conseguente a passati affidamenti diretti avvenuti al di fuori delle regole del mercato, il perseguimento di tale finalità incontra pur sempre il limite della ragionevolezza e della necessaria considerazione di tutti gli interessi coinvolti”.

Benché possa in astratto subire limitazioni, ove imposte per il conseguimento di fini sociali, la libertà di iniziativa economica – come evidenziato caratterizzata anche dalla libertà di scelta dell’imprenditore, declinata come libera organizzazione dell’attività imprenditoriale – non può essere radicalmente svuotata della sua portata applicativa, neanche qualora siffatto svuotamento origini dalla contrapposta esigenza di garantire la piena applicazione del principio di libera concorrenza.

In altri termini, le limitazioni al diritto di libertà di impresa non possono che derivare da una complessa operazione di bilanciamento, nell’ambito della quale il Legislatore è tenuto a seguire i superiori principi di proporzionalità e ragionevolezza.

Di talché, la Corte ha ritenuto innanzitutto che “la previsione dell’obbligo a carico dei titolari di concessioni già in essere, non assegnate con la formula della finanza di progetto o con procedure a evidenza pubblica, di affidare completamente all’esterno l’attività oggetto di concessione – mediante appalto a terzi dell’80 per cento dei contratti inerenti alla concessione stessa e mediante assegnazione a società in house o comunque controllate o collegate del restante 20 per cento – costituisca una misura irragionevole e sproporzionata rispetto al pur legittimo fine perseguito, in quanto tale lesiva della libertà di iniziativa economica, con la conseguenza dell’illegittimità costituzionale dell’art. 177, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016 e dell’art. 1, comma 1, lettera iii), della legge n. 11 del 2016, per violazione degli artt. 3, primo comma, e 41, primo comma, Cost.”.

In secondo luogo, la Consulta ha ravvisato l’irragionevolezza dell’obbligo in questione a fronte della sua abnorme estensione quantitativa, atteso che, da un lato, la quota parte più grande delle attività concesse deve essere appaltata a terzi e che, dall’altro, la modesta percentuale restante non può comunque essere eseguita direttamente.

A ciò si aggiunga che il vincolo di esternalizzazione posto dall’art. 177 del Codice è connotato dalla totale assenza di differenziazioni o graduazioni in rapporto alle diverse fattispecie concessorie, apparendo a tale fine di scarso rilievo – a parere della Corte – la prevista soglia di applicazione alle concessioni di importo superiore a 150.000 euro, normalmente superata dalla quasi totalità delle stesse.

Ciò in violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, che come noto impongono, nel perseguimento di fini pubblicisti quali la tutela della libera concorrenza, di addivenire a soluzioni il più possibile miti per i soggetti privati laddove si limiti il diritto di libertà di impresa.

Alla luce delle considerazioni sopra riportate, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, co.1, lett. iii), L. 11/2016 e 177, co. 1, del D.Lgs. 50/2016, dichiarando altresì, in via conseguenziale, l’incostituzionalità dei commi 2 e 3 del medesimo art. 177, in quanto recanti misure attuative direttamente connesse all’obbligo di esternalizzazione in oggetto.

La pronuncia stravolge, evidentemente, il quadro normativo di riferimento in materia di affidamenti dei concessionari, apparentemente non più soggetti – a legislazione vigente – ad alcun obbligo di esternalizzazione delle attività.

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