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In caso di risoluzione del contratto per inadempimento della S.A., spetta all’appaltatore il risarcimento del danno da lucro cessante, calcolabile in via parametrica come 10% dell’importo contrattuale

In caso di risoluzione del contratto per inadempimento della S.A., spetta all’appaltatore il risarcimento del danno da lucro cessante, calcolabile in via parametrica come 10% dell’importo contrattuale

deposito telematico degli atti

Cassazione civile, sez. I, 2 ottobre 2023, n. 27690. In caso di risoluzione del contratto per inadempimento della S.A., spetta all’appaltatore il risarcimento del danno da lucro cessante, calcolabile in via parametrica come 10% dell’importo contrattuale

Con la sentenza in oggetto la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in merito al danno patito dall’appaltatore a titolo di mancato utile – che avrebbe incassato dall’esecuzione integrale del contratto – nell’ipotesi di risoluzione contrattuale per inadempimento della Committente.

In merito, i Giudici di Legittimità hanno richiamato quanto originariamente previsto dalla “L. n. 2248 del 1865, art. 345, all. F), con riferimento al caso del recesso ad nutum del committente, espressione di un diritto potestativo il cui esercizio può avere luogo in qualsiasi momento e non richiede particolari presupposti o motivi, restando tuttavia l’amministrazione tenuta a pagare i lavori già eseguiti in base all’appalto, e avendo l’appaltatore il diritto di ottenere, in aggiunta, il risarcimento del danno calcolato sull’ammontare dell’utile conseguibile secondo il criterio presuntivo previsto da detta norma (Sez. 1, n. 26009 del 17.10.2018)”.

Tale norma, specifica la Corte, “attribuiva all’Amministrazione la facoltà di risolvere in qualunque tempo il contratto, mediante il pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti

in cantiere, oltre al decimo dell’importo delle opere non eseguite”.

Il principio, riconosce la Cassazione, “è stato ribadito dal D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, art. 122, come pure dal D.Lgs. 21 aprile 2006, n. 163, art. 134, del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, art. 109, ed ora dal D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36, art. 123”.

Sulla scorta di quanto sopra, con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha affermato che “In tema di appalto di opere pubbliche, la L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 345, all. F, ove stabilisce la percentuale del residuo corrispettivo dovuta all’impresa appaltatrice per il caso di esercizio da parte della committente della facoltà di recesso, regola i crediti pecuniari derivanti da detto atto legittimo dell’Amministrazione, e, pertanto, nella diversa ipotesi della responsabilità risarcitoria dell’Amministrazione medesima per inadempimento, può essere utilizzato quale parametro per la determinazione del lucro cessante dell’appaltatore, ma non incide sulla natura di credito di valore del corrispondente diritto del danneggiato, implicante la computabilità, in sede di liquidazione, del sopravvenuto deprezzamento della moneta. (Sez. 1, n. 1114 del 1.2.1995, richiamata anche di recente da Sez.1, n. 11361 del 2.5.2023)”.

Dunque, la previsione normativa in termini di indennizzo per l’ipotesi di recesso ad nutum dell’Amministrazione può essere utilizzata quale parametro per la determinazione del danno da lucro cessante da risarcire all’appaltatore nelle ipotesi di risoluzione per inadempimento della Committente.

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